Quando si studiano «storie» rese immortali da almeno un «capolavoro artistico» - ad esemmpio quella di Romeo e Giulietta resa famosa dalle «versioni» di Bandello, di Da Porto, e in ultimo di Shakespeare - si scopre sempre che esse affondano radici profonde da un lato nelle «cronache storiche», che offrono sempre spunti per poter dire “è tutto vero!”, e dall’altro nella «narrazione letteraria» stessa, perché le grandi storie sono poche, ma si «tramandano» e si «trasformano», creando tante «varianti» pur sempre riconducibili a «modelli archetipici» «logici» piuttosto che «storici» (si vedano in proposito, gli studi condotti da Propp in entrambe le direzioni, sottolineando la differenza tra: ricercare le "radici stoche dei racconti di fiabe", oppure studiarne la "morfologia", cioè i modelli logici condivisi parzialmente da gruppi di fiabe imparentate tra loro).
Anche nel caso di Romeo e Giulietta non cessa mai la caccia a «la fonte delle fonti» per determinare chi abbia ispirato chi, e quale sia «la prima versione» - di cui si possano riconoscere evidenze in «miti» e «fiabe», e che sia «documentata» da «cronache» o «trascrizioni» della «cultura orale» - che possa aver ispirato uno scrittore che a sua volta abbia ispirato l’autore che l’ha resa più famosa e vicina a noi. Come dire: chi mai avrà ispirato gli autori del musical e del film West Side Story? A questo proposito, alcuni anni fa, paradossalmente, una nuova edizione dell' Odissea di Omero veniva venduta con una fascetta che la reclamizzava come "il libro che ha ispirato il film Fratello dove sei? dei fratelli Cohen"; evidentemente gli editori - per pubblicizzare un «classico della letteratura» in un mondo che cerca solo novità e semplicità, e possibilmente poca letteratura - avevano colto l'opportunità di avvalersi di una novità semplice e cinematografica che tuttavia, per autoproclamarsi un prodotto di qualità, si era attribuita una presunta «parentela» illustre con Omero, soddisfacendo così la critica che considera i Cohen degli intellettuali nel paese dei rozzi, e nobilitando un film mediocre agli occhi degli spettatori che, pur ricercando cose rozze, amano sentirsi a loro volta degli intellettuali).
In genere queste ricerche «genetiche» si arenano quando diventa difficile dimostrare (persino con degli artifici, come accade quando si cerca di «dimostrare» una tesi pregiudiziale) che un autore abbia letto un altro autore, o che la novella raccontata in un secolo e/o in un luogo lontano, con certi personaggi e certo intreccio, possa essere ritenuta remota parente di quella che si assume come riferimento.
Anche se si assumono come «pietra di paragone» i «temi» e «motivi» riscontrabili nelle novelle considerate «parenti», non si fanno molti passi avanti; si finice solo per riscoprire quella verità che ogni fruitore ha già intuito sin da piccolo: che tutte le novelle del mondo sono fatte di «elementi» simili e seguono «regole» simili.
Per capire non «se», ma «quanto» alcuni racconti siano «imparentati» tra loro, occorre piuttosto andare a studiarne la «formula», come insegna Propp nella sua Morfologia della fiaba anche se lui stesso si ferma a un «livello analitico» non «generalizzabile». Prendendo (a proposito) «ispirazione» da Propp, si può però tentare di spingersi più in profondità (come ci invitano a fare Levi-Strauss e Cirese), cioè, a un «livello» in cui non le «parti costitutive» e neppure le «regole universali» impiegate, ma le «soluzioni» con cui «elementi e regole» si compongono, per creare «strategie» simili, possano essere identificate analizzate e comparate. A questi livelli, come per il dna di un individuo, si possono riconoscere ampie zone comuni, sovrapponibili, e riconducibili le une alle altre con pochi passaggi per «trasformazioni algoritmiche». Non dimentichiamo che le «soglie» con cui introduciamo una «differenza qualitativa» tra due fenomeni, le stabiliamo operando una «segmentazione in un continuum quantitativo», che se non viene mai interrotto confonde tutto con tutto e rende persino impossibile stabilire se si tratta di esemplari simili ma appartenti a due classi differenti, o se invece esemplari con variazioni «irrilevanti» di uno stessa tipologia di fenomeni.
Ma anche quando classifichiamo due oggetti come simili e tuttavia li assegniamo a due classi distinte, possiamo domandarci quanto sono simili e in base a quali tratti distintivi abbiamo stabilito la linea di demarcazione. Se il dna di un scimpanzé corrisponde a quello dell'uomo in una percentuale vicina al 98% … perché non definirci «scimpanzé con qualcosa in più»? E perché non immaginare un'unica novella (La novella delle novelle o "Lo cunto del li cunti") che per «trasformazioni» e sviluppi «generi» tanti racconti rinnovandosi ogni volta che viene narrata?
La scuola dovrebbe essere il luogo giusto per sperimentare e capire «come» si creano, si stabiliscono e si modificano - con metodo scientifico - le «tassonomie» (nell'esempio quella degli «Ominoidi», tanto modificata nel tempo dalle stesse scienze biologiche) anziché affrettarsi a farle assumere, in modo dottrinale, come «presupposti» impliciti. Si tratta degli «automatismi», molto utili per la vita di tutti i giorni, ma ostacoli difficili da superare - in quanto radicati come come una «seconda natura», come pregiudizi inconsapevoli e perciò non avvertiti come tali - da tutti coloro che vogliano imparare a fare, a studiare e a insegnare l'arte e la scienza.
Un bravo insegnante potrebbe aiutare i ragazzi a sviluppare la loro intelligenza assegnando stimolanti compiti elaborativi, come ad esempio « trasformare», con una serie di passaggi («gradi di separazione»), una novella in un’altra (proprio come una «porta» in un «tavolo» o una «falce» in una «spada» o un «budino» in una «colla»). In questo senso anche cercare gli «antenati» di una «penna a sfera» o di un «automobile» o di un «termosifone» o di un «letto» (consultando antichi dizionari ma anche iconografia e cronache storiche) può essere utile per accorgersi che oggetti distanti per «usi» o «significati» possono tuttavia condividere «strutture» logiche e materiali comuni (si può scoprire che l'antico «stilo» romano - nella versione in piombo - è imparentato con la «penna di piombo» utilizzata dai «padri pellegrini», imparentata a sua volta con i «proiettili» dello stesso tempo in quanto ottenuta martellando una «palla di piombo» usata allora come «munizione»; una «carrozza» slegata dal traino dei cavalli e munita di motore può essere riconosciuta come l’antenata della nostra «automobile»; un «caminetto» per scaldare, cucinare e illuminare, può essere considerato l’antenato dei nostri - separati - «termosifone», «lampada», «forno», etc). “Risalire fino ai rami comuni”, come invitava a fare il grande etno-antropologo Ernesto De Martino, non è tanto diverso da quello che l’ancor più grande suo allievo Alberto Cirese invitava a fare, mostrandoci come e dove ricercare «affinità strutturali» tra fenomeni, distanti nel tempo e nello spazio, che non dichiarino esplicite (a volte persino false) e univoche o reciproche ispirazioni, imitazioni, variazioni. Può essere un buon inizio per arrivare a padroneggiare la «logica» piuttosto che la sola «storia» delle «trasformazioni strutturali e funzionali» degli oggetti che ci circondano.
E’ fin troppo facile trovare «tracce» di una storia come quella di Romeo e Giulietta (lo stesso vale ad esempio per Cenerentola) in novelle antiche e di diversi paesi; ed è una speculazione in buona parte inutile cercare di ricostruire «geneticamente» la via che porterebbe dalla letteratura greca e latina antica a Shakespeare (dai Babyloniaka di Giamblico, dagli Ephesiaka di Senofonte Efesio, dalla storia di Piramo e Tisbe nelle Metamorfosi di Ovidio ...). Non si riesce neppure a stabilire se Shakespeare abbia letto Bandello o Da Porto; solo grazie alle evidenti «similitudini» con la versione a lui «geograficamente e temporalmente più vicina» - quella di Arthur Brooke - si si è fatta risalire la versione di Brooke a quella di Painter, traduttore di Boisteau, a sua volta traduttore di Bandello; e quindi si è potuta stabilire una ragionevole - nonché palese - parentela tra i due racconti che qui confrontiamo.
E’ certamente stimolante, ai fini didattici, fermarsi a riflettere sul «gioco del telefono senza fili» per scoprire e capire come un testo si moltiplichi in tante «varianti» anzitutto grazie alla «trasmissione orale», e poi alle «traduzioni letterarie» traditrici; ma è ancora più interessante - sempre ai fini didattici - fermarsi sul problema «metodologico» della «stratificazione» di «riscritture» che puntualmente si ritrova come condizione necessaria per la nascita di un’«opera d’arte».
Nel caso di Romeo e Giulietta occorre considerare che se già la novella di Bandello appare come una piccola opera d’arte, il dramma shakespeariano, da essa ispirato, raggiunge la sua perfezione anche proprio grazie allo studio dell’architettura della «versione» di Bandello, senza dimenticare quella di Da Porto che, indipendentemente o attraverso la rielaborazione di Bandello, non poco ha plausibilmente contribuito alla creazione del capolavoro di Shakespeare.
L’arte intesa come «studio-progettuale» presuppone uno «studio-analitico» in cui un autore «smonti» e «rimonti» oggetti preesistenti, per «scoprire» le «possibilità logiche» non «attualizzate» e pur presenti nei «modelli logici» comuni; ma soprattutto occorre che li «trasformi», perché, stabilendo «impreviste correlazioni» tra parti di oggetti «non immediatamente e direttamente correlabili tra loro», egli possa creare «nuovi oggetti imparentati con essi e con tanti altri».
Provate a riconsiderare un grande racconto, che già conoscete, come un «incrocio» tra altri racconti; e immaginate cosa accadrebbe a una fiaba che amate, se a un certo punto la storia prendesse una deviazione imprevista che la facesse entrare in un’altra storia. “Noi siamo gli altri” dicono sia scienziati, come Henri Laborit, sia grandi artisti, come François Truffaut. All’occhio attento di uno studioso ogni grande racconto appare infatti come progenie imprevista risultante da matrimoni non autorizzati tra autori anche assai distanti tra loro, in vita; una progenie che trae, loro malgrado, il meglio da ciascuno di essi.
La domanda che dovremmo porci non è dunque se Shakespeare si sia ispirato a Bandello o a da Porto, ma a quanti si sia ispirato; o meglio da quanti testi preesistenti abbia tratto la necessaria «materia narrativa» e persino «espressiva» da mettere in forma per comporre un «suo» capolavoro, logicamente e dichiaratamente imparentato con essi sin dal nome dei protagonsti e dall'ambientazione. Diverso è infatti il rapporto che lega «dichiaratamente» - «esplicitamente» e «direttamente» - tra loro i tre racconti qui considerati - di Luigi Da Porto (1529), di Matteo Bandello (1554) e di William Shakespeare (1594/96) - dal rapporto che lega i loro racconti a quello di Masuccio Salernitano (1476) a cui pure è evidente che il racconto di Shakespeare «indirettamente» ispira: attraverso Brooke (1562) che riscrive Boaistuau (1559) che traduce Bandello che probabilmente riscrive Da Porto probabilmente ispirato da Salernitano. Se considerassimo il legame «indiretto» tra il Romeo and Juliet di Shakespeare e la trentatreesima novella del "Novellino" di Masuccio Salernitano, la «parentela» non apparirebbe esplicita come negli altri casi (i protagonisti della novella di Salernitano si chiamano Mariotto e Ganozza e vivono a Siena) ma sarebbe ugualmente rintraciabile nelle soluzioni e strategie presenti nel racconto.
Questo stesso ragionamento si può estendere alla ricerca delle parentele più o meno strette tra i progetti narrativi dello steso Shakespeare: per esempio, se il Frate Lorenzo del suo Romeo and Juliet fosse più accorto, e il suo piano andasse in porto senza intoppi, e se i genitori di Giulietta, una volta pianta la loro figliola, avessero una seconda possibilità per rendersi conto delle loro colpe e rimediare ai loro errori …staremmo entrando in Too much ado for nothing; e la nostra «tragicommedia», o «commedia che volge in tragedia», si trasformerebbe in una pura «commedia degli errori».
Provate a fare lo stesso esercizio ricercando le correlazioni logiche tra la storia di ROmeo e Giulietta narrata da Bandello e quella di Paolo e Francesca narrata nelle versioni di Dante e di Boccaccio.
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