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La narrazione letteraria dall’oralità alla scrittura, come strumento narrativo monomediale ma multiplanare ◊ corsi formativi e didattici in forma ipermediale elearning __________________________________________________________ |
Il progetto: Una serie di laboratori di narrazione e composizione sotto la guida virtuale dei maestri della narrazione letteraria
Un ambiente di studio, formativo e didattico, per entrare nei laboratori di composizione dei grandi romanzieri.
Quando si parla di «narrazione» spesso la si confonde con la «scrittura letteraria», e quest'ultima con la «scrittura letteraria narrativa». Eppure la narrazione si può sviluppare in molte altre forme espressive (visive, musicali, audiovisive), così come la scrittura letteraria può assumere una forma «scientifica» anziché «artistica», utilizzando codici rigorosi per impedire quell'«ambiguità» che viceversa è indispensabile per il linguaggio artistico. Si può scrivere per presentare «progetti» (sceneggiature, piece teatrali) anziché per realizzare «prodotti». E si può scrivere per insegnare - realizzando «manuali» - anziché per narrare - realizzando «racconti».
La «scrittura letteraria narrativa» consente di raccontare «storie», a volte intersecandole con la «Storia», di cui si occupano normalmente gli storiografi. Questo tipo di scrittura, la più diffusa, si impara spesso più per imitazione inconsapevole che per studio consapevole. A partire dalla scuola di base essa è infatti trattata come una «pratica», e perciò accompagnata da scarse riflessioni metodologiche. Normalmente la si fa esercitare dapprima con «riassunti» e poi con «temi», per anni, fino al diploma liceale; in misura ridotta la si continua a far praticare nelle Università grazie alla consuetudine di richiedere almeno tesine e tesi di laurea «scritte», in cui la poca scientificità è spesso compensata dalla narrativa.
Ma se quasi tutti imparano a scrivere e a raccontare, sia pure in modo
empirico e automatico e servendosi di stereotipi narrativi e frasi fatte, pochi, e in pochi ambiti, imparano a raccontare storie servendosi della scrittura letteraria in modo «artistico». Mentre infatti proliferano le scuole e i corsi accademici che promettono di trasformare chiunque in uno «storyteller», scarseggiano corsi e manuali che prendono in esame quel tipo di narrazione e di scrittura letteraria necessaria per creare e per studiare un capolavoro artistico: un «classico» che possa rimanere, nel tempo, accanto ad altri classici del passato, trovando un posto nel vasto patrimonio artistico di cui ancora il nostro paese è ricco, anche se ormai incapace di incrementarlo.
La scrittura letteraria narrativa «artistica», da cui nascono romanzi e poesie, racconti filosofici e novelle, favole e fiabe - cioè testi che per essere fruiti e apprezzati pienamente possono non richiedere altre forme espressive come, ad esempio, le illustrazioni - è certamente solo una parte di ciò che si può fare con la scrittura letteraria; ma è anche il veicolo maggiore con cui, insieme alla scrittura letteraria «scientifica», si tramandano - in forma «sintetica» piuttosto che «analitica» - i saperi, gli ideali, gli insegnamenti morali ed estetici di una Civiltà con una lunga tradizione; una Civiltà come la nostra che, pur attraversando secoli di degrado e di oblio - come quello che, purtroppo, stiamo vivendo proprio ora - ha saputo crescere e conquistare il mondo non con la sopraffazione ma con il fascino dei capolavori della tradizione umanistica; tesori non a caso considerati «patrimonio dell'umanità», perché da sempre attraggono autori, studiosi e curiosi di qualunque paese, che, dopo averli conosciuti indirettamente, spesso proprio attraverso la nostra letteratura, sognano di viaggiare nelle terre d'arte d'Italia e d'Europa.
E' difficile immaginare che pensieri tanto complessi come quelli espressi dai grandi maestri della nostra tradizione «letteraria» possano essere rappresentati in altre forme espressive, e meno che mai senza una messa in forma «artistica» o «scientifica». Tra l'altro la tradizione letteraria umanistica ha persino saputo coniugare entrambi i modi di «mettere in forma», in modo adeguato, la complessità del pensiero, creando (con Galilei, Diderot, Calvino, solo per fare alcuni esempi) quel tipo di racconto insieme artistico e scientifico che è il «racconto filosofico», poi
reinventato dal cinema, nella forma del «film-saggio», da autori come Orson Welles e Roberto Rossellini. E sempre la tradizione umanistica ha saputo esaltare il valore educativo dell'arte come strumento di crescita, facendo del «racconto morale», fin dalle favole di Esopo, Fedro e La Fontaine, materia ideale per l'esercizio e lo sviluppo della ragione.
Ma anche nel campo letterario, come nel cinema e nella musica, esistono gli «oggetti di culto», che vengono spesso confusi con i «classici», perché, come quelli, resistono al tempo, sia pure per ragioni opposte: essi si affermano come nostalgici rituali di corteggiamento dell'infantilità dei lettori, mali comuni e mezzi gaudi di cui gli autori e i distributori li invitano a gioire, invitandoli a condividere il desiderio di rimanere stupidi e rozzi ... ma felici.
In un'epoca in cui solo l'economia sembra regolare la vita dell'uomo, in cui «economisti della cultura», venditori e mercanti, agendo secondo regole del marketing, dirigono
teatri e inventano ad ogni stagione nuove correnti di sperimentazione artistica, non c'è da stupirsi che "Cinquanta sfumature di grigio", un progetto di marketing che rilancia il romanzo "Harmony" in chiave più trasgressiva per adulti (adulti in senso puramente anagrafico), sia potuto diventare il maggior successo letterario di tutti i tempi; o che i nuovi guru della narrativa si vantino di vendere più copie di Italo Calvino. D'altro canto gli autori della peggior spazzatura cinematografica "all'italiana" sono oggi inaspettatamente venerati, per i loro record di spettatori, e persino considerati i nuovi «maestri» dello sciagurato mondo contemporaneo; un mondo in cui il cinema è diventato trailer di videogiochi, e i videogiochi hanno sostituito ogni altra forma di fruizione, e persino di gioco, presso le nuove sfortunate e male educate generazioni.
In un mondo in cui si legge sempre di meno, perché la «cultura di massa» circola soprattutto attraverso la televisione e il cinema - e ora i videogiochi - la letteratura per adeguarsi si è sempre più allontanata dall'arte. Anzi lo sforzo dei critici, asserviti alla cultura di massa che domina il mercato, è quello di convincere i lettori che proprio la cultura di massa è la nuova arte, naturalmente «pop». Per questo diventa sempre più imbarazzante assegnare premi e riconoscimenti, eleggendo blogger e autori di bestseller come i nuovi Hemingway, Joyce e Calvino dell'era di Internet.
I romanzi da consumare e dimenticare, in treno o dal parrucchiere, sono sempre esistiti, ma non nella percentuale attuale che monopolizza le librerie e i cataloghi degli editori. Allo stesso modo, nel cinema, i film che hanno maggior successo stagionale, ora dedicati a supereroi dei fumetti che si alleano e si sfidano tra loro, un tempo finivano rapidamente nelle sale parrocchiali ed erano amati da un limitato pubblico, «infantile in senso anagrafico». E' vero che gli uomini del marketing cinematografico e televisivo, che pianificano la programmazione per cercare di raggiungere il maggior pubblico possibile, rivolgono ormai esplicitamente tutta l'offerta audiovisiva ad un target compreso tra i dieci e i quindici anni; ma questo target comprende ora anche adulti, che non hanno mai superato la maturità di un dodicenne, e che vanno al cinema non «per accompagnare» i figli ma semmai «accompagnati da» i loro figli, con cui condividono gli stessi interessi.
I medesimi videogiochi che esaltano ogni tipo di violenza psicologica e fisica, e propongono di continuo nuovi mostri da combattere per il bene di un'umanità post-apocalittica, sono sono ormai rivolti tanto ad adulti immaturi a caccia di zombie, quanto a bambini destinati, come loro, a non crescere; e i social network sono altrettanto dominato dai documenti della vita quotidiana di ragazzini, quanto da quelli di adulti frustrati, nostalgici dei divertimenti adolescenziali.
Il linguaggio e le strutture narrative dei videogiochi sono - tranne in casi eccezionali - poveri e stereotipati. Il solo scopo, proposto ormai senza alcuna vergogna, è l'intrattenimento per ammazzare il tempo. E se per il fumetto ci sono eccezioni - una per tutti l'opera di Hugo Pratt - è difficile immaginare che anche dai videogiochi possa nascere «arte», a meno di non giocare con le parole e chiamare arte qualunque forma di intrattenimento. E' un po' più probabile che un artista, in cerca di facili, immediati e sostanziosi guadagni, si metta a realizzare videogiochi, che un autore di videogiochi si metta a (riesca a) fare arte.
E' chiaro che una scuola basata sull'adeguamento al mercato - come la vorrebbero molti politici e imprenditori - potrebbe persino eliminare lo studio della letteratura artistica, e adottare proprio i videogiochi come modelli di apprendimento, sia per avere più successo con i ragazzi, sia per dare loro, sin da piccoli, un esempio e una strada redditizia da seguire per ottenere successo ed entrare a far parte del mercato dell'intrattenimento. Qualcuno, in evidente malafede, potrebbe persino sostenere che, siccome nei peggiori teleromanzi, nei fumetti più standardizzati e nei videogiochi più «evoluti» possono essere riconosciuti elementi e regole che si ritrovano in capolavori letterari, allora tanto vale occuparsi di teleromanzi, fumetti e videogiochi. Ma è chiaro che non vale il contrario: nei capolavori artistici non ci sono solo quegli elementi e quelle regole; la struttura narrativa, inoltre, è così complessa da poter rappresentare personaggi, pensieri, sentimenti che sono assenti dai cascami o succedanei che ne imitano male persino gli intrecci; ognuno dei - pochi - «principi narrativi» utilizzati da un videogioco che prenda a prestito personaggi e stilemi delle fiabe classiche, non è mai utilizzato in modo altrettanto sistematico, logico, in una parola intelligente.
Eppure bisognerebbe riflettere sulle ragioni per cui anche questa cultura di massa ha bisogno di riferirsi ai «classici», da un lato per potersi legittimare e da un altro per dissacrarli, irriderli, e oltraggiarli persino quando dichiara di «omaggiarli». Siamo evidentemente di fronte alla frustrazione della volpe per l'uva che non riesce a prendere, e all'invidia, sempre della volpe, per chi sa (sapeva) coltivarla e prenderla.
Per argomentare meglio la questione bisognerebbe
considerare, anche in questo caso, il problema irrisolto della - mancata - ricostruzione culturale e morale del nostro paese dopo le due guerre mondiali; un paese che per secoli ha avuto come risorsa primaria l'arte e la scienza, e che da tempo, non sapendola più fare né insegnare a fare, è costretto a chiamare arte e scienza cose che non hanno nulla a che fare con esse, o addirittura a sostenere che l'arte e la scienza siano fenomeni superati, materia utile solo alla demenziale o colta «dissacrazione».
Purtroppo è passato quasi un secolo da quando sono scomparsi coloro che avrebbero ancora saputo insegnare, ai nuovi aspiranti scrittori, «come scrivere in forma artistica». E se sono scomparsi senza lasciare allievi, la colpa non è solo loro, in quanto non hanno creato «botteghe» per insegnare l'arte come hanno fatto - con loro stessi - i loro maestri; la colpa è anche di coloro che hanno preferito imboccare la via apparentemente più facile e meno faticosa di ripartire da zero senza confrontarsi con una difficile e imbarazzante eredità. Questi pseudo-artisti «di talento», anziché rimboccarsi le maniche e cercare con umiltà di imparare dalle opere classiche, hanno preferito spacciare la propria sperimentazione «naive», il proprio balbettio come una nuova forma d'arte, più «attuale» e «contemporanea», presentando la povertà come una scelta, l'insensatezza come simbolismo, la bruttezza come provocazione, la mancanza di una logica narrativa come rifiuto della narratività. Quanta spazzatura si è prodotta (leggi: stampata) da allora (anche in campo letterario) per lanciare sedicenti nuovi maestri (in questo caso della scrittura), ovvero per creare e sfruttare fenomeni stagionali, autori di successi (bestseller) da dimenticare rapidamente e rimpiazzare con altri nuovi e più promettenti fenomeni di talento?
E ora che fare? Se si vuole imparare a usare la scrittura letteraria per fare pubblicità e propaganda, per diffondere gossip, inseguire la cronaca e condividere i propri commenti estemporanei, non serve né leggere né studiare l'opera di Balzac o di Tolstoj. E infatti ormai la maggior parte dei neo-scrittori non la legge e non la studia, ma anzi la considera spesso superata e datata. Meglio allora leggere un contemporaneo che scrive come noi e ci offre l'illusione che basti scrivere come lui per avere successo? No, se si considera che quello il successo non lo ha avuto certo per le sue in-«capacità», ma piuttosto per la «logica della parentela» e per l'astuzia di chi ha fatto di lui «il re degli incapaci», per illudere così, attraverso di lui, tanti altri incapaci e vendere loro cose altrimenti invendibili.
D'altra parte quando si studia un «classico» - come avviene ancora nei «licei classici» - lo si «riduce», interpretandolo in modo pedagogico, spesso in modo da renderlo inapprezzabile, noioso, dimenticabile. Quasi meglio sarebbe, forse, che certi classici non entrassero nei programmi della scuola, se il risultato è quello di allontanare gli studenti dalla loro fruizione e renderli intolleranti ad essi. Meglio trattarli male che non trattarli affatto?
In un paese in cui lo studio della letteratura è stato a lungo condizionato dalla scelta desanctisiana di privilegiare ed esaltare quegli autori la cui opera potesse servire ad inculcare le ideologie dominanti (o anche «alternative») è difficile uscire dal modello di apprendimento contenutistico che valuta pregiudizialmente le opere per «ciò di cui parlano», neanche per «cosa dicono» a tal proposito, e meno che mai per «come lo dicono». Questa scuola «prepara», se così si può dire, «critici» («militanti» o «impegnati» che dir si voglia) a fruire e apprezzare opere ideologiche e contenutistiche «per dovere»; e di conseguenza li prepara anche a ricercare - per reazione - ben altre opere da fruire per piacere e di nascosto, creando la falsa alternativa del liberatorio «racconto spazzatura» da fruire come antidoto al deprimente «racconto ideologico».
In questo paese, più che in altri, l'«evasione» - e quindi anche la cosiddetta «letteratura di evasione» - è considerata un peccato mortale di cui per lo meno vergognarsi, e da scontare con purghe di letteratura «impegnata». Non conta che un autore sappia scrivere belle storie intelligenti, conta solo ciò di cui le storie parlano, che giustifica e purifica a priori anche le peggiori incapacità dell'autore. Lo schieramento ideologico paradossalmente è ancora, nel nostro paese, la migliore scelta per assumere rapidamente l'investitura di «intellettuale» e di «artista». Non importa che su un tema importante si dicano cose stupide, perché il peggior peccato è dire cose intelligenti su argomenti non considerati politicamente rilevanti e corretti.
Questa concezione si fa strada già dalla scuola, quando si valuta come indegno ogni racconto che non sia considerato «impegnato», per lo meno come dietrologica simbolistica «metafora» di un fenomeno contemporaneo suscettibile di un dibattito a sfondo politico sociale. Ed è proprio nella scuola che si apprende quel luogo comune per il quale i «classici» si salvano solo quando si può scorgere in essi qualcosa di «attuale», o meglio qualcosa che anticipava «profeticamente» temi di attualità. Ma se, paradossalmente, i classici sono considerati - per definizione riduttiva - solo prodotti del passato e - per pregiudizio - inadatti a suscitare interessi in un lettore contemporaneo, altrettanto paradossalmente i testi «contemporanei» - per definizione non di meno riduttiva - non potranno mai diventare dei «classici»? E' chiaro che c'è una gran confusione intorno al concetto di «classico». Se per «classici» noi intendiamo quei capolavori che fino ad oggi hanno saputo superare ogni confine di spazio e di tempo per giungere fino a noi e per diffondersi nel mondo, testi che continuano ad essere apprezzati, da coloro che li leggono, nonostante i pregiudizi e l'oblio da parte di distributori che non li ristampano e di critici che li classificano come vecchi e superati, allora possiamo scommettere che anche alcuni (pochi purtroppo) racconti realizzati nella nostra contemporaneità, qualora possiedano le qualità per superare confini generazionali e culturali, tra anni verranno riconsiderati, con un po' di distacco, anch'essi come dei «classici», e quindi apprezzati più di quanto non lo siano già ora per altre ragioni.
Se vogliamo capire cosa rende certi testi dei «classici», donando loro una potenziale immortalità, dobbiamo ricercare, nel passato, quei testi che si sono già rivelati dei classici; e, nel presente, scommettere su quei potenziali classici che prima o poi si riveleranno tali a chi saprà riconoscerli. Dobbiamo riuscire, cioè, a identificare quei racconti in grado di resistere al precoce invecchiamento delle mode, perché non rappresentano solo una determinata situazione del loro presente in cui sono stati scritti, ma una situazione universale dell'umanità; testi che in quanto tali sono non «attuali sempre» ma «classici sempre», non riducibili a fenomeni rappresentativi del proprio tempo né culturalmente connotati come reperti storici o antropologici da commemorare e ricordare solo in occasioni di revival. Dobbiamo ricercare testi che possano essere essere amati ad ogni latitudine e compresi da chiunque possieda le necessarie capacità intellettive, non perché profetici e attuali, ma perché adatti a rappresentare, con il linguaggio dell'arte, sentimenti universali che non invecchiano, che non appartengono solo a una società di un certo tempo o alla storia di un individuo in cui nessun altro potrebbe immedesimarsi. Per questo i «classici», pur raccontando storie ambientate in tempi a volte lontani dal lettore, e pur essendo creati da un autore a volte lontano biograficamente dal lettore, sono in grado di parlare a quest'ultimo perché indagano ciò che c'è di universale nell'«animo umano», facendo emergere quegli «interrogativi invarianti al variare delle situazioni» in cui i testi sono stati creati o in cui sono fruiti. L'«uso» - o per meglio dire l'abuso - dei testi classici come strumenti di propaganda, non li penalizza, semmai riduce temporaneamente le possibilità di scorgervi la complessità che un lettore, crescendo, potrebbe scoprire rileggendoli a distanza di tempo, e misurando così la sua stessa crescita.
Purtroppo già nella scuola si preferisce insegnare ad apprezzare quelle opere che «aggiornano» e riducono i classici per renderli più vicini ai giovani e perciò più accettabili, piuttosto che insegnare ad amare i classici per quello che sono, per quella complessità che richiede un lettore capace di esplorarne i loro meccanismi e apprezzarne le sofisticate architetture: le sole adatte a veicolare informazioni più ricche e articolate di quelle, povere e prevedibili, che può veicolare una loro impoverita e sbiadita «attualizzazione».
Eppure dovrebbe essere proprio la scuola a insegnare a riconoscere, nei testi del passato come in quelli del presente, quelle qualità che possiedono i testi classici, che li rendono adatti a superare ogni confine temporale, geografico e sociale. E' invece proprio nella scuola che si afferma il modello conoscitivo per il quale «ciò che viene dopo è sempre meglio di ciò viene prima» perché supera le «vecchie idee» con idee «rivoluzionarie» che le rendono obsolete. Da questa scuola escono ragazzi che non conosceranno mai l'«evasione necessaria dell'arte», che stimola l'intelligenza perché invita a immaginare non «la vita come è» ma «come potrebbe essere»; essi cercheranno l'«evasione del trash», che, come una qualunque droga, genera quella dipendenza da stordimento, ideale per non doversi mai domandare cosa fare nel «tempo libero», quando si smette di fare un brutto lavoro necessario per sopravvivere.
La stessa scuola che non riesce a far amare lo studio come ricerca, scoperta, invenzione, finisce per far considerare lo studio come un «dovere», da assolvere e poi subito dimenticare grazie a una quantità di piaceri effimeri - sostitutivi del piacere proveniente dalla qualità dell'arte - che tuttavia non soddisfano mai pienamente e generano dipendenze dalle fonti stesse di quei paceri.
Non possiamo meravigliarci se i nostri figli o nipoti passano ore davanti a una consolle di videogiochi a sparare, a guidare, a saltare e schivare. Domandiamoci se stiamo stati in grado di offrire loro un piacere più profondo e gratificante, e di far loro scoprire e coltivare quella «sana evasione» dalla realtà quotidiana costituita dall'arte e dalla scienza. Anziché sperare che chattando e twittando si rivelino dei talenti, perché non insegnare loro come scrivevano i grandi scrittori? Perché non aiutarli a scoprire il piacere di fare arte? Magari poi davvero qualcuno di essi potrebbe, a ragione, rivelarsi un «genio» che, imparando da degni maestri, ne raccoglierà e svilupperà la difficile eredità.
Anche il fenomeno dei «blogger», che rende «tutti scrittori, ovvero nessuno scrittore», non aiuta a risolvere il problema, ma crea un succedaneo che alimenta illusioni. D'altro canto se tutti possono sentirsi scrittori aprendo un blog, quanti studiosi, frustrati e stufi di non avere abbastanza fama e successo, si sono riciclati come narratori autori di bestseller? E quanti studiosi incapaci si sono riciclati come «critici» per giornali e trasmissioni dove conta la polemica e il gossip, divenendo così opinionisti, presenzialisti, barzellettieri e intrattenitori? Il mestiere dello studioso e dell'autore richiede la conoscenza dell'arte e della scienza, mentre questi altri mestieri, che hanno invaso i mass media e screditato il campo umanistico, richiedono «solo» l'amicizia o la parentela con le persone giuste in grado di liberare un posto assistito; e presuppongono - piuttosto che l'inutile «competenza» - l'immedesimazione - assai facile per chi non è mai cresciuto - nei gusti e nelle pulsioni adolescenziali del propri lettori.
La decisione di dedicare un Laboratorio della Nostra Scuola alla «narrazione letteraria artistica» nasce dalla constatazione che persino nell'ambito letterario - ancora il più trattato in campo umanistico e il più considerato nella scuola che dovrebbe formare i nuovi umanisti - lo studio sistematico dei testi classici e lo studio metodologico degli strumenti con cui studiarli stanno scomparendo o subendo un declino insieme agli studi umanistici stessi. Mentre si continua a insegnare la «storia» di questi studi, e mentre si propongono «interpretazioni» socio psicologiche delle valutazioni di lettori impreparati a fruire testi artistici (attribuendo però alle in-«competenze» del lettore una straordinaria capacità creativa che dovrebbe addirittura aggiungere valore informativo ai capolavori artistici, non più da «comprendere» ma solo da «interpretare»), è ormai chiaro che i classici vengono trattati come «pretesti» per parlare di tutto tranne di come sono fatti. E questo ovviamente per colpa di pseudo maestri che non sanno loro stessi entrare nei testi - per parlare di ciò che c'è «dentro» e non «dietro» - ma solo girare «intorno» ad essi, per tentare di ricostruirne la «genesi», la «fortuna critica», e per attribuire dietrologicamente ad essi funzioni «simboliche», che possano giustificare le più astruse interpretazioni. D'altra parte il testo letterario narrativo artistico, come ogni altro testo artistico, è fin troppo speso trattato dalla critica, e ora anche dalla didattica, come fosse una «macchia di Rorschach«, o nel migliore dei casi come un «rebus» da sciogliere per ottenere interpretazioni - infondate - circa il mondo dell'autore e le sue turbe personali, o persino circa profetiche visioni sul nostro presente. Questa tendenza «critica» attribuisce un potere speciale al lettore, rendendolo quasi un co-autore. Così, anziché preoccuparsi di insegnare agli studenti come funziona la mente di un grande autore, un insegnante può ora spostare tutta l'attenzione su come funziona la mente dei lettori, vestendo i panni di una sorta di psicologo- sociologo che insegna come diventare tali e quali e lui. In questa nuova veste l'insegnante-critico attribuisce ai suoi studenti un ruolo tanto gratificante quanto illusorio nell'esaminare il testo, facendo dipendere la valutazione del testo dalle opinioni del lettore, dalle tendenze del mercato, dalla capacità dell'autore di adeguarsi alle attese dei lettori, alimentate da pessime letture e condizionate dalle incapacità degli stessi.
In controtendenza con questa manipolazione dei testi classici noi vogliamo proporre uno studio che più umilmente, ma anche più scientificamente, miri sia alla progressiva - ancorché mai esaustiva - comprensione della complessità della loro architettura, sia all'apprendimento delle competenze autoriali insite in essi.
Anziché occuparci di come fa un lettore a trattare un testo come pretesto per proiettare su di esso le proprie ossessioni, intendiamo spostare l'attenzione dei nostri utenti-allievi su come fa un autore a elaborare un progetto sistematico, in cui tutto si tiene grazie alle relazioni tra le sue parti e a un uso accorto di principi narrativi.
Per far questo, anziché proporre assaggi antologici e suggerire interpretazioni monoprospettiche, dietrologiche o ideologiche, vogliamo invitare i nostri utenti a studiare da più prospettive analitiche uno stesso testo classico, per trarre da esso il maggior numero di competenze e per imparare ad anatomizzarlo come un oggetto che, all'anatomista competente, può rivelare molte sorprese.
La nostra sfida è mostrare come, sviluppando meglio il «vecchio» modello scolastico dello studio di un testo classico per l'intero anno accademico, si possa riuscire a farlo amare - anziché odiare - e a far amare anche la scrittura letteraria, insegnando a padroneggiarne le forme.
Un articolato capolavoro della nostra letteratura, o pochi brevi componimenti di diversi grandi autori non solo italiani, potrebbero consentire sia di esplorare le forme della scrittura sia di far esercitare gli studenti a riconoscere, quanto appreso, in altri testi già conosciuti e a rileggerli da nuove prospettive di studio.
Il programma che abbiamo intenzione di attuare prevede lo sviluppo di Sistemi Reticolari E-Learning dedicati a romanzi o a racconti brevi di grandi autori classici, i cui capolavori contengono insegnamenti metodologici che intendiamo esplicitare e trasmettere ai nostri allievi-utenti. Come? Scoprendo e rappresentando ipertestualmente la rete logica di correlazioni in base ai principi condivisi tra le parti di cui sono fatti (correlazioni interne) e con capolavori di altri autori che costituiscano varianti implicite.